Sulla vecchiaia, pensieri... Il Dr. Roberto Malacrida, Presidente della Sezione bellinzonese dell’Associazione Ticinese Terza Età (ATTE), settantenne,
delinea un quadro puntuale di cosa significa essere anziani nel nostro Cantone. Le occasioni per uscire di casa e rivivere una buona socialità, ora che la pandemia volge al termine, si ripropongono numerose.
Ci sono numerose istituzioni, in Ticino, che si prendono cura dei nostri anziani. Fra queste, l’ATTE merita una particolare attenzione perché in gran parte è affidata all’operosità dei suoi volontari. E anche se la pandemia ha posto un freno ai suoi programmi, ora ha ricominciato ad essere più che mai attiva. Il Dr. Roberto Malacrida ci parla dell’ATTE, delle sue esperienze a contatto con il mondo della terza età e del suo invecchiare.
Dottor Malacrida, ci può dire come e quando ha assunto il suo ruolo di Presidente dell’ATTE?
Qualche anno fa la Sezione bellinzonese dell’ATTE è rimasta per diverso tempo senza presidente. Un amico mi ha chiesto se potevo mettermi a disposizione, cosa che ho fatto con piacere ma anche con un po’ di fatica, perché gli impegni pubblici sono ancora parecchi e il compito non è di per sé facile, a maggior ragione in tempi di pandemia da Covid. La forzata mancanza d’attività per un lungo periodo ha causato una certa “perdita” di volontari. Ora stiamo lentamente ricostruendo il nostro team, perché il volontariato è alla base dell’ATTE: è quello che la fa funzionare e che garantisce tutti i servizi.
Le attività dell’ATTE stanno quindi riprendendo a pieno ritmo. Anche i viaggi, settore fra i più penalizzati dalla pandemia…
In un certo senso sì, soprattutto finanziariamente, visto che le iscrizioni ai viaggi costituivano un’importante fonte di entrate a livello cantonale.
Ad Arbedo, Claro e Sementina, grazie al buon lavoro dei comitati locali, i volontari sono rimasti relativamente numerosi, anche perché in agglomerati dalle dimensioni contenute le persone di solito si conoscono, funziona bene il passaparola, ci si aiuta volentieri e si sta insieme piacevolmente, consolidando delle amicizie. Bellinzona è invece un nucleo urbano decisamente più grande, dove simili relazioni di vicinanza e conoscenza non sono scontate. Ma ora abbiamo una nuovissima sede, che spero possa fungere da polo attrattivo: mettiamo infatti a disposizione degli utenti un grande locale per gli incontri, una sala di lettura, la possibilità di usufruire di orti collettivi. Il nuovo Centro diurno è situato nel quartiere delle Semine, in via Antonio Raggi, ed è dotato anche di un ristorante accogliente, “Al Bel”, la cui gestione è affidata alla Fondazione Diamante. Guardiamo insomma al futuro con ottimismo: le idee per la promozione di svariate attività ricreative non mancano.
Cos’è cambiato dopo due anni di pandemia? Possiamo trarre qualche insegnamento?
La Fondazione Sasso Corbaro con la SUPSI e il Consiglio degli Anziani hanno svolto una ricerca nell’ambito dello studio Corona Immunitas per analizzare il vissuto dei pensionati rispetto a una eventuale perdita di dignità. È emerso che le restrizioni hanno fatto capire a molte persone che effettivamente erano invecchiate. Quando si cessa l’attività produttiva, la realtà del quotidiano cambia, sebbene la salute, per la maggior parte degli individui, non muti in modo significativo. Ma bisogna effettivamente elaborare questo cambiamento, accettando il fatto di subire una sorta di “categorizzazione”, che tende a separare chi ha più di 65 anni dal resto della popolazione. In generale, ciò viene vissuto da molti come una specie di perdita d’identità.
Come una sorta di discriminazione.... Ricordiamo la famosa frase pronunciata durante una conferenza stampa da un esponente delle autorità rivolta agli anziani: “Andate in letargo!”.
Certo, ma devo dire che, nelle risposte alla nostra indagine (oltre 800 gli intervistati), questa frase è stata ricordata in modo negativo solo da pochi. Penso sia stata interpretata piuttosto come un errore di comunicazione, fra i tanti che hanno caratterizzato l’inizio della pandemia. Occorre comunque riconoscere che era difficile gestire la situazione creata da un virus, di cui non si conosceva quasi niente, né la prognosi, né le complicanze e le mutazioni. Penso sia stata un’impresa difficile far capire alla popolazione la ragione di certi interventi restrittivi che hanno limitato le libertà individuali a favore dei più fragili.
Ritiene che nel Canton Ticino si faccia abbastanza per gli anziani, oppure si potrebbe fare qualcosa in più?
Secondo me si fa molto. In particolare il Dipartimento Sanità e Socialità aiuta concretamente e in modo ottimale le numerose organizzazioni che si danno da fare per il prossimo, soprattutto se vulnerabile. L’ATTE è un’associazione che si basa essenzialmente sul volontariato, promuove la salute e cerca di prevenire le malattie da invecchiamento attraverso attività comunitarie, viaggi e soprattutto con i corsi dell’Università della Terza età (UNI3). Certo restano purtroppo ancora anziani che faticano finanziariamente e che non possono permettersi lunghi viaggi o vacanze secondo i loro desideri.
A proposito di giovani, quando aveva 20-30 anni come immaginava la sua vecchiaia?
La nostra generazione, quando era giovane, probabilmente come tutte, non pensava di dover invecchiare e soprattutto vedeva le persone anziane come “molto vecchie”; di certo la visione non era propriamente positiva. Mancava l’idea dell’anziano “saggio”, che ha meno motivi di essere stressato dal lavoro e può approfittare “meglio” della sua giornata, per realizzare magari quelle piccole grandi cose cui prima aveva sempre dovuto rinunciare. La nostra idea dell’anziano era piuttosto quella che, invecchiando, ci si doveva per forza ammalare.
Come è cambiato nel tempo questa sua idea? È stata influenzata dall’essere diventato medico?
Naturalmente, come medico, c’è sempre stato il massimo rispetto, direi deontologico, per chi ha delle disabilità, delle malattie, a maggior ragione se gravi. Da questo punto di vista, non c’è mai stato un pensiero “discriminante”, semmai un desiderio costante di garantire ai pazienti la dovuta dignità. Oggi, comunque, non vivo in modo positivo il fatto di constatare che sia diminuito molto il tempo che mi resta a disposizione per vivere assieme alle persone care e anche per fare delle cose che mi piacciono, mancasse anche qualche decennio… Ci sono degli studi sociologici che dimostrano come l’attività, la voglia di fare, l’essere impegnato, aiuti ad essere più felici. Felicità forse è una parola grossa, direi forse meglio a essere “sereni”, ad arrivare a sera “soddisfatti”. Naturalmente bisogna essere fortunati e godere di uno stato di salute che garantisca soprattutto l’indipendenza, la possibilità di leggere, ascoltare musica, svolgere un’attività sociale e magari pure sportiva. Comunque resta essenziale avere accanto dei familiari e delle persone care che non siano ammalate in modo sofferente, perché questo cambierebbe naturalmente tutta la prospettiva della quotidianità.
Secondo Gabriel García Márquez “il segreto di una buona vecchiaia non è altro che un patto onesto con la solitudine”: è proprio così?
Non so esattamente a cosa si riferisse Márquez. Ma posso immaginare, per esempio, che il lavoro – pur limitando certe libertà personali (la mattina ci si deve per forza recare sul posto di lavoro e a sera si rincasa magari molto stanchi) – contribuisca in modo significativo ad allontanare il rischio e la sensazione della solitudine, soprattutto se si ha il privilegio di operare in un buon ambiente di lavoro. È chiaro che quando si va in pensione, anche se si può godere maggiormente della compagnia della moglie o della compagna, i figli sono ormai fuori casa e bisogna gestire anche il fatto di non incontrare più i colleghi di lavoro. Penso che associazioni come l’ATTE possano essere d’aiuto per limitare l’insorgere di sentimenti di solitudine.
Non è mai troppo presto per pensare alla vecchiaia: è solo uno slogan?
Effettivamente l’ATTE ammette fra i suoi soci anche persone che non hanno raggiunto l’età del pensionamento. Trovo comunque che si tratti di un pensiero complesso, perché da un certo punto di vista ha a che fare con la “saggezza”. Qualcuno potrebbe assimilarlo all’idea che la persona saggia dovrebbe vivere “pensando che dovrà morire”. Personalmente sono abbastanza lontano da questa visione, forse perché ho avuto a che fare con la morte degli altri, persone ammalate o ferite che non volevano assolutamente morire. Immagino che, quando arriverà il momento di dover lasciare a malincuore questa vita, affronterò il problema del fine vita. Direi che si prepara bene la propria vecchiaia quando si ha il privilegio di riuscire a instaurare nel corso dell’esistenza dei “buoni” rapporti con le persone care, con gli amici e la famiglia. In tal modo, idealmente si può sperare di aver contribuito a far crescere dei sentimenti forti, quelli che non si possono costruire artificialmente quando è ormai tardi. Ma bisogna avere avuto la fortuna di poterlo fare.
Quanto è importante poter restare il più possibile nella propria casa, fra le cose più care? È ciò che consente il Servizio del Telesoccorso della Svizzera Italiana. Ho una mamma anziana che è stata costretta ad andare in una casa di riposo ma non l’ha vissuta bene...
Personalmente penso che vivrei questa situazione come sua mamma. L’idea di dover convivere con persone che non ho mai conosciuto è qualcosa che mi spaventa. Penso che farò tutto il possibile per evitarlo, e sono molto felice che ci siano servizi, come per esempio il Telesoccorso della Svizzera Italiana o le Cure a domicilio, che permettono di rimanere a casa anche quando gli anni avanzano e si è confrontati con disabilità fisiche. Se uno sta bene a casa sua, fra le mura in cui ha vissuto per decenni, di sicuro fa fatica a lasciarla. Devo però dire che ci sono persone, e probabilmente non sono poche, che apprezzano il fatto di entrare in una casa per anziani per vivere una certa quotidianità comunitaria. Dipende un po’ dalla natura caratteriale dell’individuo, credo. Non si può certo affermare che tutti gli ospiti delle case per anziani siano tragicamente tristi. Magari, se qualcuno ha perso il partner e ha i figli lontani, si trova meglio in una struttura che non da solo in un appartamento.
La vita si è allungata, ma fino a che punto sarebbe “opportuno” vivere? Le prospettive dicono che fra qualche decennio si arriverà fino a 120 anni, ma cosa faremo?
Nella mia attività professionale in Medicina intensiva e in Medicina d’Urgenza ho sempre cercato di allungare la vita delle persone, soprattutto se affette da traumi o malattie pur gravi ma potenzialmente reversibili. Il limite di questo approccio è comunque la “qualità di vita”. Per esempio il fatto di essere ancora coscienti è comunque un indicatore molto importante. Allo stesso modo direi che se si è consapevoli, se si riesce a leggere e ad ascoltare le cose che piacciono, se si riesce a restare relativamente indipendenti sia da un punto di vista fisico sia intellettuale, si può vivere anche molto a lungo e con piacere. Naturalmente aiutano in modo determinante l’affetto dei propri cari, la possibilità di vedere i nipoti diventare grandi, la curiosità di seguire come vanno le cose del mondo, quali siano i cambiamenti politici e sociali in atto, oppure cosa capiti negli ambiti della ricerca scientifica o della cultura e via dicendo. Tuttavia alcune malattie, come l’Alzheimer o altre forme di demenza, generano un problema immenso e allora è importante riflettere per prevenire le conseguenze del vivere a lungo in simili condizioni.
Crede che in Svizzera un giorno cambierà l’idea di eutanasia?
In quest’ambito così delicato, per me esistono due priorità: il rispetto dell’autonomia di ogni persona e la realizzazione clinica del desiderio di non morire con dolore. Il problema della sofferenza è difficile da risolvere, perché se uno – pur non volendolo – deve morire a causa di una malattia grave, comunque la sofferenza c’è. Però quando la malattia è grave e ci sono dolori molto forti, oggi si può ricorrere al suicidio assistito, che in Svizzera è permesso. Si può anche optare per la cosiddetta “sedazione palliativa”, che significa togliere il dolore indipendentemente dalla perdita di coscienza: in pratica i pazienti che hanno dei dolori insopportabili vengono addormentati e poi eventualmente muoiono dormendo. È un’alternativa accettata sia dalla legge sia dalla religione e non comporta le problematiche dell’eutanasia attiva. Anche per un medico non è così semplice intervenire in modo attivo. Certo dipende dalle situazioni. In genere si studia medicina per guarire, ma è anche vero che a volte far terminare bene una vita vuol dire prendersi cura del paziente. Devo ammettere però che la questione è proprio complessa.