Olandese di nascita, Marijke Gores è da vent’anni Soccorritrice professionista di Croce Verde Bellinzona. Ha così percorso un lungo cammino al servizio della comunità bellinzonese che l’ha sottoposta a molteplici sfide.
È stata la prima donna in CVB a far parte dell’Unità di Intervento Tecnico Sanitaria. Giunta quasi al traguardo della pensione, si racconta in un’intervista.
Ci racconta qualcosa di sé e del suo percorso professionale in Croce Verde Bellinzona?
Sono nata nel 1964 in Olanda, dove ho conseguito il diploma di infermiera. Nel 1992 mi sono trasferita in Ticino. Desideravo raggiungere il mio futuro marito che dall’Olanda aveva scelto di venire a vivere in Svizzera, alla ricerca di un lavoro come fisioterapista. E poco dopo ci siamo sposati. In Ticino sono stata assunta alla Clinica San Rocco a Grono. Nel 2000 ho seguito il corso di Soccorritrice volontaria e in seguito ho completato la mia formazione come Soccorritrice diplomata. Ho iniziato la mia attività professionale in Croce Verde Bellinzona nel 2002.
Perché ha iniziato gli studi da infermiera? C’era qualche esempio nella sua famiglia di origine?
Mia mamma avrebbe voluto svolgere una professione nel campo sanitario, ma non ha potuto. Erano altri tempi, in cui si pensava che solo gli uomini potessero studiare e avere un lavoro. Per questo è rimasta casalinga, nonostante avesse sempre voluto fare l’infermiera. Credo che tutto sia partito da lei, dunque. A scuola quando ci facevano fare dei test per le diverse professioni mi veniva proposto sempre o fisioterapista o infermiera. Mio papà invece era rappresentante per un’azienda di costruzioni metalliche, proponeva corsi di formazione ai ragazzi ed era anche insegnante.
Quando lei è entrata in CVB, la sede era ancora in viale Portone. Cosa ricorda di quel periodo?
Non ho lavorato molto in quella sede, già troppo piccola per le esigenze di allora, ma ho buoni ricordi. Tutto era molto familiare: c’era la centrale di allarme, un piccolo soggiorno con divano e televisione, un tavolo dove si poteva mangiare. La cucina era piuttosto angusta. C’erano gli spogliatoi e sopra gli uffici, con la possibilità di dormire. Io non ho mai dormito in sede perché a quei tempi solo due componenti del team di pronto intervento potevano dormire durante i turni di notte: il terzo componente doveva stare sveglio e visto che non ero ancora diplomata toccava a me.
Dal punto di vista professionale e tecnico a quali cambiamenti ha assistito?
Oh è cambiato tanto, tutto è diventato più strutturato e organizzato. Prima c’erano molti più volontari e noi soccorritori diplomati uscivamo in ambulanza con due di loro. Oggi invece l’equipaggio è composto da due soccorritori diplomati e a volte (nel fine settimana o di sera) da un volontario. Un tempo noi tutti accompagnavamo gli allievi che facevano lo stage, ora c’è invece un gruppo di tutor che si occupa della formazione dei nuovi soccorritori che frequentano la scuola. Inoltre, non siamo mai lasciati soli durante un intervento: c’è sempre qualcuno che possiamo chiamare giorno e notte nel caso siano necessarie cure più approfondite dal punto di vista medico. Noi soccorritori lavoriamo secondo protocolli, gli Atti Medico Delegati (sono circa una trentina, suddivisi in paziente adulto e paziente pediatrico). In sostanza abbiamo un po’ più di libertà di azione rispetto all’infermiere in ospedale, ma è tutto definito all’interno di questi protocolli. Se è necessario andare oltre, dobbiamo chiamare sul luogo dell’intervento l’infermiere specialista o il medico. Ogni due anni dobbiamo fare un test, per verificare la nostra competenza riguardo questi Atti. Periodicamente ci viene proposto un caso pratico, un po’ come per i piloti che si esercitano in un simulatore di volo.
Non sono molti i soccorritori della sua età che escono ancora in ambulanza…
Vero, tra l’altro sono anche già stata operata di ernia alla schiena nel 2014. Già in quell’occasione i fisioterapisti mi hanno detto: “Signora, adesso cosa farà, questo lavoro non potrà continuare a farlo, ha già scelto un altro lavoro?”. E io dentro di me pensavo “…sì perché a 50 anni è facile scegliere un altro lavoro…”. E io mi son detta “...scommettiamo che riesco a riprenderlo?”.
E così dopo un paio di mesi dall’operazione sono tornata al lavoro prima al 50%, poi a tempo pieno.
Questa professione la si sceglie perché la “senti” dentro come una vocazione. C’è adrenalina che scorre, fra un minuto non sai cosa succede, tutti gli interventi sono diversi uno dall’altro. È una professione che richiede anche molta creatività, nonostante i protocolli da rispettare, devi saperti adattare alle diverse situazioni che affronterai durante la giornata. Invece nelle corsie di un ospedale è diverso. La mattina si inizia lavando i pazienti, c’è il giro delle camere, vige una certa routine.
Ha fatto parte anche dell’UIT-S - Unità di Intervento Tecnico Sanitaria, vero?
Sì, sono stata la prima donna in CVB a far parte di questo gruppo di soccorritori specializzato in interventi particolari in luoghi impervi. La cosa era resa ancora più singolare dal fatto che in Olanda non ci sono montagne...
Trovavo quel tipo di soccorso molto interessante e coinvolgente, sia emotivamente che fisicamente. Le esercitazioni insieme ai colleghi e ai pompieri erano una preziosa occasione di scambio di esperienze e di perfezionamento delle tecniche di pronto intervento in situazioni estreme. Erano i miei sabati preferiti, ricordo con piacere quel team di soccorritori.
Purtroppo nel 2014 ho dovuto lasciare il Gruppo per problemi fisici e anagrafici.
Ricorda il suo primo intervento?
Sì, lo ricordo bene. Era un mercoledì pomeriggio ed ero ancora volontaria. Siamo andati da una signora giovane, non ricordo esattamente cosa segnalava la chiamata… era stata identificata come “una situazione sconosciuta”. Deve pensare che io venivo da un ambiente abbastanza protetto, come può esserlo un ospedale, non ero abituata ad entrare nelle case degli altri. Quindi all’inizio lo trovavo molto strano. In quel mio primo intervento i miei colleghi erano due uomini. Si trattava di una signora che aveva fatto abuso di medicamenti e si trovava in stato di incoscienza. La prima cosa che ho dovuto fare è stata di occuparmi di un bambino di circa 1 anno che piangeva disperatamente. Poi i colleghi mi hanno detto di andare in cucina a cercare i blister dei medicamenti per capire cosa avesse preso quella donna. Mi ricordo che giravo con il bambino in braccio nell’appartamento, mentre i miei due colleghi si prendevano cura della signora, stesa su un divano. Era un tentativo di suicidio. L’intervento ha avuto un esito positivo, la donna si è salvata. E in quella circostanza ho potuto contare sul mio istinto di mamma, ho due figli anch’io.
Il suo lavoro porta ad attivare tutti i sensi: la vista, l’udito, il tatto…
E ci insegna a capire quello che nessuno dice, a leggere tra le parole. Intuire che dietro un silenzio può esserci una richiesta… Sì, lo sento dire anche dai miei colleghi, “questa situazione la sento male…”. È un lavoro che ti porta a sviluppare tutti i sensi e non solo. C’è anche l’esperienza. Ti è capitata altre volte un’esperienza analoga e sai già come è andata. Nei casi dei pazienti psichiatrici ascolto la mia pancia... E poi ci sono gli interventi notturni. Si vede poco e allora si chiede aiuto agli altri sensi, come l’olfatto o l’udito. Devi essere in grado di ascoltare bene, di sentire le modulazioni delle voci, non solo dei pazienti ma anche dei familiari.
Ha qualche hobby particolare? Cosa le piace fare nel tempo libero?
Ho due cani e mi piace molto fare delle passeggiate con loro. Mi è sempre piaciuto camminare. Ho anche fatto una parte del Cammino di Santiago di Compostela, con la mia collega Samantha. Avremmo voluto farlo interamente, ma in tutto sono 700 chilometri e non potevamo prendere due mesi di vacanza. Quindi ci siamo dette “facciamo l’ultimo pezzo”, vale a dire da Sarria a Santiago. Abbiamo così percorso 125 chilometri in soli 5 giorni.
Fra poco più di un anno andrò in pre-pensionamento e mi piacerebbe farlo tutto, ancora con la mia collega o anche da sola. Devo dire che all’inizio ero molto scettica, è stata Samantha che me l’ha proposto. Mi dicevo no, questa cosa così spirituale non fa per me. Tuttavia l’idea di camminare per un lungo tratto nella natura mi piaceva. Era un’opportunità per allontanarsi qualche giorno dalla frenesia, dal traffico e dallo stress. È stata anche un’occasione per riflettere sulla vita. Questo lavoro mi ha insegnato una cosa, che tutto può finire in un attimo e che dobbiamo vivere al massimo ogni istante.
Qual è l’intervento che le è rimasto più impresso dal punto di vista emotivo, in tutti questi anni?
È stato un incidente, molti anni fa. Era un turno di notte, a un certo punto è suonato l’allarme dalla Centrale, un allarme rosso. Si trattava di un incidente d’auto in un’area di sosta, lungo l’autostrada A2.
Ricordo che guidavo io l’ambulanza e l’altra soccorritrice che formava il team non era diplomata: era una figura tra il volontario e il diplomato, l’attuale “ausiliario d’ambulanza”. Quando siamo arrivate ci siamo trovate di fronte a una scena apocalittica. Alla guida dell’auto c’era una donna, e il figlio adolescente era seduto di fianco a lei. Sui sedili posteriori viaggiavano invece il papà e la figlia di nove anni. La donna probabilmente ha avuto un colpo di sonno o un malore e improvvisamente è finita sui guard-rail che separano l’area di sosta dall’autostrada. Queste strutture hanno costituito una sorta di binari su cui l’auto si è lanciata per trenta metri. E lungo questi trenta metri la bambina è stata catapultata fuori dall’auto.
Eravamo in una situazione di buio completo. Quando siamo arrivate ci hanno segnalato che la piccola si trovava in un campo vicino. La mamma era accanto a lei, con il viso coperto di sangue. Ricordo che ci disse: “Mia figlia è molto silenziosa adesso”. In effetti era troppo silenziosa: aveva avuto un arresto respiratorio. Sappiamo bene, del resto, che se un bambino smette di respirare va in arresto cardiaco più velocemente che un adulto.
Le ho praticato un paio di ventilazioni e ha ricominciato a respirare. Abbiamo richiesto l’intervento del medico, di un’altra ambulanza e della Rega. Anche il padre aveva bisogno di soccorso, perché aveva una sospetta frattura cervicale. Invece il figlio vagava nel parcheggio, quasi illeso, ma completamente sotto shock emotivo. Con il nostro medico ci siamo presi cura della bambina, che è stata subito intubata. Ricordo che la mamma voleva vedere ancora una volta la figlia prima che questa fosse portata via dalla Rega: la donna infatti non poteva salire sull’elicottero perché non c’era posto.
E io quando è partita la Rega mi sono messa in ginocchio e ho pianto.
Tutta l’équipe che ha preso parte a questo intervento si è trovata il giorno dopo per un debriefing. È vero che la bambina quando era salita sull’elicottero aveva già ricominciato a respirare, ma non sapevamo se ce l’avrebbe fatta. La mamma, inoltre, si sentiva in colpa.
Dopo due mesi suonarono alla porta di Croce Verde: la mamma e la figlia erano venute a trovarmi. La figlia si era pienamente ripresa senza alcun deficit. Questo per me è stato un grandissimo regalo. In genere tutti gli interventi in cui sono coinvolti bambini sono per noi particolari dal punto di vista emotivo. E io questo, in particolare, non lo dimenticherò mai.
Le è capitato di prestare soccorso durante un parto?
In ambulanza mai, anche se ci sono andata vicino. Invece mi è capitato di arrivare in una casa quando il bambino era già nato. Ricordo un caso poco prima della pandemia. Non siamo stati i primi ad arrivare, c’erano già due First Responder (cittadini adeguatamente formati che, su segnalazione di Ticino Soccorso 144, intervengono nelle emergenze praticando le manovre salva-vita prima dell’arrivo dell’ambulanza). Era un turno in cui facevo il Servizio Specialistico d’Urgenza, accompagnavo il medico. Poco prima di arrivare, la centrale ci ha comunicato che il bimbo era nato. Se non ci sono complicazioni è un intervento abbastanza ordinario. Era il secondo figlio per la mamma e il primo per il papà… Quasi avevamo da fare più con lui che con la mamma. In quel clima di grande euforia ci siamo accorti che la placenta non voleva staccarsi e quindi abbiamo portato la mamma in ospedale.
E gli interventi in ambito psichiatrico - patologia cresciuta moltissimo negli ultimi anni - come li vive?
Non sono interventi facili. Con questo tipo di pazienti bisogna stare un po’ distanti, sono imprevedibili. Poi l’ambulanza è anche molto piccola e chi ha qualche problema mentale può perdere completamente le staffe ed aggredirci, ma per fortuna non mi è mai successo nulla di particolare. Inoltre, con gli anni e l’esperienza sai quando qualcuno vuole essere lasciato in pace e bisogna rispettare questa sua esigenza. Il nostro compito è anche quello di convincere il paziente a venire con noi in ospedale per il suo bene, se può rappresentare un pericolo per gli altri e per se stesso. Perché tra l’altro non è coinvolto solo il paziente, ma anche i familiari, gli amici...
Sì, sono indubbiamente interventi molto complessi.
Qual è il suo rapporto con la religione e l’aldilà?
Sono nata e cresciuta in una famiglia cattolica, ma oggi non sono più molto religiosa. Penso che quando sono con un paziente, c’è sempre qualcuno che mi guarda da sopra le spalle. Io non ho l’ultima parola, non posso dire cosa potrà succedere, non so se il paziente vivrà o no. Ovviamente faccio tutto il possibile per tenerlo in vita. Ma l’ultima parola non ce l’ho io. E questo mi dà pace, mi consente di continuare a fare questo lavoro. Ogni tanto parlando con i colleghi giovani mi dico che ho visto tutto nella vita. Non ho vissuto la guerra, ma facendo questo lavoro ho visto tutto. Ricordo che dicevo “se vedo una persona decapitata, smetto”… invece ho visto anche quello e sono ancora qui.
Sono convinta che la morte non sia la fine di tutto. Anni fa mi è capitato di parlare con un paziente di mezza età a cui avevamo fatto una rianimazione per 45 minuti. Gli avevamo dato moltissime scariche, molta adrenalina e medicamenti. Praticamente era morto, lo abbiamo tenuto in vita noi con il massaggio e la respirazione. Per diverse volte lo abbiamo ripreso, ma poi il suo cuore si fermava di nuovo. Lo abbiamo portato in ospedale sotto massaggio cardiaco… Questa persona me la sono ritrovata tempo dopo, quando siamo stati chiamati dalla Centrale per trasportare un paziente dal Cardiocentro al S. Giovanni… Io gli ho dato la mano e lui ha capito che il giorno della rianimazione ero presente. Durante questo trasporto abbiamo avuto modo di parlare. Gli ho chiesto se si ricordava di aver visto qualcosa, perché praticamente era morto. Lui ha risposto di dimenticare le classiche immagini come il tunnel e la luce… “Se mi aveste lasciato andare a me non sarebbe dispiaciuto, perché era bello. Non ricordo di aver visto qualcosa di particolare ma la sensazione era bellissima”. Esattamente dopo un anno siamo stati invitati a casa sua e abbiamo parlato ancora con lui ed è stata un’esperienza incredibile.
Questo episodio mi ha convinto che dopo la vita c’è qualcosa. Sì, sono convinta che c’è qualcosa e non ho paura. Anche se mi dispiace per i miei figli e per tutte le persone che lascio.
Come fa a gestire le emozioni durante gli interventi più impegnativi? Ha un suo protocollo, le viene naturale, ha imparato con il tempo?
Le emozioni in quei momenti si devono saper metter da parte. Quando ci capita di vivere un’esperienza drammatica, possiamo fare un debriefing con tutta l’équipe e tutti i partner coinvolti. In questa circostanza esaminiamo l’intervento dal punto di vista tecnico, ma possiamo anche parlare delle nostre emozioni. Nei miei anni di soccorso mi è capitato di doverlo fare diverse volte. Agli allievi e volontari che iniziano dico sempre: “Se assisti a qualcosa di brutto e lo devi elaborare mi puoi sempre chiamare, anche solo per sfogarti”. Certo non sono psicologa ma so cosa significa vivere certe esperienze. Se non si riesce più a dormire perché si continua a pensare a un evento drammatico che si è vissuto, vuol dire che è arrivato il momento di chiedere un aiuto professionale.
Ha già pensato cosa farà in pensione?
Certo, voglio comprare una casa di vacanza in Olanda e viaggiare. Non intendo trasferirmi in modo definitivo nel mio Paese d’origine, perché negli ultimi anni l’ho visto molto cambiato. Mi è capitato diverse volte di tornare lì e di non trovare più quello che avevo lasciato. Mio padre è morto tre anni fa, mia madre l’anno scorso. Ho ancora un fratello in Olanda e un altro che mi ha seguito in Svizzera e vive a Basilea. Ma nonostante tutto sento che le mie radici sono ancora lì.