Enrico Pradella ci apre il suo album dei ricordi
Enrico è un veterano dei soccorritori professionisti di Croce Verde Bellinzona. La sua esperienza è maturata in molteplici ambiti: nelle missioni in ambulanza, nel soccorso in ambienti ostili e soprattutto come formatore. Anche quando andrà in pensione, vorrebbe mettere a disposizione tutto il suo bagaglio di competenze come formatore nei paesi in via di sviluppo.
Enrico, si avvicina la pensione, partiamo dall’inizio, cosa ricordi?
Ho iniziato a lavorare presso l’Ente Regionale Autolettighe (ERA) di Agno nel 1985 e nel 1987 sono entrato in Croce Verde Bellinzona, nell’allora sede di viale Portone. All’epoca la scuola di formazione non era ancora regolarmente attiva e sono quindi diventato un professionista solo negli anni ‘90. Ho quindi iniziato come volontario. Ricordo che questa sede era molto piccola, disposta su due piani. C’era la Centrale di allarme e un piccolo pronto soccorso, una saletta con la televisione e uno sgabuzzino con la macchina del caffè. La flotta era composta da due sole ambulanze. Diciamo che era una sede molto “caratteristica”, situata sotto le mura del Castelgrande. A volte era molto fredda - d’inverno non c’era quasi mai il sole - tanto che l’acqua per lavare le ambulanze ghiacciava.
Di quel tempo ricordo un’Assemblea dei delegati comunali molto affollata nella sala del Municipio di Bellinzona, dove si discuteva di una nuova sede per la CVB. Alcuni politici, però, oltre a chiedere di risparmiare sugli stipendi, non consideravano la nuova sede un aspetto importante. Ricordo che ho proposto a un membro dell’Assemblea di visitare la nostra sede e di accertarsi delle condizioni di lavoro. Poi per protesta sono uscito dalla sala del Municipio.
Nel 1985 ho fatto uno stage osservativo a San Diego in California. Mi è sempre piaciuto viaggiare, conoscere altre culture e spesso mi fermo nelle sedi dei servizi ambulanza per capire come formano il loro personale. Questo mi ha spinto ad avvicinarmi sempre di più al mondo della formazione, un’attività che svolgo ancora oggi.
Ho tre figli che hanno scelto una strada diversa dalla mia, ma sono contento che abbiano sempre dimostrato una predisposizione ad aiutare gli altri. Sono cresciuti portando con sé i guanti in lattice nel loro zaino scolastico. “Magari potrebbero servire in caso di emergenza” mi hanno spesso detto. In effetti, sono stati utili un paio di volte anche per i loro compagni di scuola.
Hai una storia familiare molto particolare, che ti ha messo sotto i riflettori dei media cantonali e soprattutto di quelli oltre confine. Vuoi raccontarcela?
Sì, certamente. Sono stato adottato quando ero bambino, ma dentro di me ho sempre voluto sapere chi fosse la mia mamma biologica. Così ho iniziato a cercarla quando avevo 15 anni e, sebbene ci fossi sempre andato vicino, diversi ostacoli burocratici e legali hanno sempre impedito il nostro incontro. Poi finalmente, dopo anni di ricerche, ce l’ho fatta: ho scoperto che era un’infermiera degli Ospedali Riuniti di Bergamo. All’inizio l’ho tenuto nascosto, ma poi un giorno, invece di andare a un corso, sono andato a Roma per partecipare a una trasmissione in diretta televisiva e i miei colleghi mi hanno visto. Così, l’hanno riferito al Caposervizio e ho dovuto giustificarmi per l’assenza. Era il 1987 e io e la CVB abbiamo così avuto un momento di notorietà, perché sono finito su tutte le televisioni italiane e sui quotidiani per aver ritrovato mia madre e mio fratello.
Un intervento che ricordi in particolar modo, qualcosa che non sei mai riuscito a dimenticare…
Quello che mi fa tornare alla mente alcuni interventi sono i luoghi in cui sono avvenuti. E vorrei dimenticare quelli che ho fatto con i bambini, anche se non hanno mai avuto un effetto su di me tale da farmi cambiare lavoro. Anzi, hanno rafforzato ancor di più la mia idea di aver fatto la scelta giusta. Tuttavia, ogni tanto vorrei non ricordarmeli più per l’inevitabile impatto emotivo che provocano. Ma ho sempre cercato di apprendere il più possibile da questi eventi particolari, in modo da essere più preparato la volta successiva.
Fin dalla nascita dell’Unità di Intervento Tecnico-Sanitaria ne hai fatto parte. Siete un gruppo di soccorritori che opera in ambienti “ostili”.
Nel 2008 siamo stati i precursori dell’Unità di Intervento Tecnico-Sanitaria in Ticino e oggi sono ancora ufficialmente operativo. Siamo un gruppo di soccorritori formati per operare in ambienti particolari e luoghi impervi. Attualmente sono il capo gruppo e mi occupo degli esami biennali per la ricertificazione dei soccorritori ticinesi. Fra un po’ penso di smettere, a causa dei limiti fisici. Ricordo un intervento particolare nella Torre Nera di Castelgrande. Abbiamo evacuato una paziente, per fortuna non in condizioni gravissime, dalla parete esterna della Torre Nord, alta 28 metri. Questa situazione era resa ancor più complessa dal fatto che non potevamo apporre chiodi e fissaggi utilizzati abitualmente, essendo Castelgrande un monumento storico del 1310. Ma tutto si è risolto al meglio, grazie all’ottimo lavoro svolto in collaborazione con la corrispondente Unità tecnica dei pompieri di Bellinzona. Ancora oggi rimane l’intervento più alto effettuato nel Cantone da questo particolare gruppo di soccorritori.
La pandemia, voi soccorritori in primissima linea.
È stato un momento molto importante della vita di tutti noi. Sono stato fra i primi ad offrirmi come volontario per collaborare con l’Esercito svizzero nel trasporto di pazienti affetti da Covid. Ricordo di pazienti che riuscivano anche a sorridermi, mi parlavano e pochi giorni dopo leggevo sui giornali del loro decesso. Sento ancora la loro tristezza nel non poter vedere e salutare figli e nipoti. Portavano sempre con sé una raccolta di fotografie infilate in buste di plastica, quelle trasparenti perforate che si mettono nei classificatori. Non avrei mai immaginato che potessero morire pochi giorni dopo.... In quel momento non erano intubati o ventilati, avevano solo qualche difficoltà respiratoria, senza la minima consapevolezza che sarebbero morti da lì a cinque o sei giorni. Era il periodo in cui non si sapeva molto della pandemia e c’era grande apprensione. Nonostante ciò, ero comunque fiero di ciò che stavo facendo, così come lo erano i miei colleghi. Ogni mattina, quando iniziavamo il servizio, sapevamo che avremmo trascorso l’intera giornata a trasportare persone infette, e questo poteva spaventare. Qui in Croce Verde, c’erano persone giovani che avevano iniziato a lavorare da poco, molti colleghi con figli ancora molto piccoli.
Tuttavia ricordo che, nonostante non disprezzi la vita, avevo il pensiero che sarebbe stato meglio se mi fossi ammalato io piuttosto che un giovane collega con famiglia. Diciamo che mi sentivo più “spendibile” rispetto ai colleghi.
Quali sono i cambiamenti maggiori nel soccorso preospedaliero negli ultimi trent’anni?
Nei primi anni della mia carriera non c’era una differenza sostanziale tra un professionista e un volontario in termini di competenze tecniche. La differenza era che il professionista era stipendiato, il volontario no. Non c’era neppure una scuola specifica per soccorritori, tutti facevano lo stesso corso di base. Le persone venivano assunte anche in base alla loro professione precedente, soprattutto se avevano esperienze di artigianato o se erano capaci di risolvere problemi con poche risorse a disposizione. Certo, tutto è cambiato. C’è una maggiore consapevolezza in ciò che facciamo. Ora gestiamo, stabilizziamo e ci prendiamo cura del paziente trasportandolo in ospedale. Naturalmente lo facevamo anche in passato, ma utilizzavamo i mezzi e le conoscenze dell’epoca. Oggi abbiamo accesso a tecnologie e presidi che non avevamo prima.
La formazione è l’unico modo per crescere e sarà sempre fondamentale nel nostro settore. Ho imparato molto anche dagli allievi durante i momenti formativi, poiché hanno portato le proprie esperienze e problematiche, arricchendo così la mia formazione professionale. La medicina preospedaliera è in costante evoluzione, e vedo che i giovani soccorritori sono molto preparati. Tuttavia, l’esperienza e la conoscenza acquisite dai soccorritori più anziani sono ancora molto utili per i pazienti. Quando ho iniziato, non si usavano nemmeno i guanti e spesso si tornava dall’intervento con le mani sporche di sangue.
Parlaci un po’ dei tuoi hobby.
In gioventù ho sempre praticato attività fisica, anche ad alti livelli. Da giovane facevo atletica e in seguito ciclismo, partecipando a una ventina di gare all’anno come amatore evoluto. Mediamente mi classificavo nella seconda metà dei partecipanti. Ho anche corso in bicicletta a New York e a Londra. Purtroppo, negli ultimi dieci anni ho avuto problemi alle articolazioni e ho dovuto drasticamente ridurre tutte le attività fisiche e sportive.
Quali sono i tuoi pensieri quando arriva una richiesta di allarme e avete 90 secondi per mobilizzare un’ambulanza?
Direi che la cosa che oggi mi interessa di più è sapere esattamente dove andare. È diventato sicuramente più complesso raggiungere i pazienti a causa del traffico sempre più intenso, delle strade chiuse e dei lavori in corso. Questo mi mette un po’ più di pressione. I continui cambiamenti viari sono diventati al giorno d’oggi una vera sfida. Le varianti del percorso sono ciò che mi preoccupa di più, anche se siamo costantemente informati sui lavori in corso dai vari Comuni convenzionati e riceviamo costantemente aggiornamenti durante il tragitto dalla Centrale Ticino Soccorso 144.
Come insegnante hai avuto sicuramente molte gratificazioni. Qual è il tuo bilancio?
In diverse occasioni, anche durante interventi molto complessi, ho incontrato persone che avevano seguito i nostri corsi di formazione. Queste persone erano lì, casualmente, sul luogo di un evento, prima che noi arrivassimo, e in maniera corretta sono riuscite ad applicare le manovre salva vita. Ricordo in particolare un giovane che aveva seguito un corso per la licenza di condurre e dopo qualche mese l’ho ritrovato su un intervento, e poi ancora qualche anno dopo su un altro. In seguito ho saputo che aveva deciso di diventare infermiere. La formazione mi permette anche di vedere il cambiamento culturale avvenuto nella popolazione negli ultimi dieci anni. Ora le persone hanno capito l’importanza di saper fare quei semplici gesti che salvano una vita. Tuttavia, temo che ci sia ancora una carenza di conoscenza del nostro lavoro come soccorritori. Mi occupo di corsi formativi tutti i giorni con cittadini e aziende di ogni genere. Quando chiedo, ad esempio, chi c’è a bordo dell’ambulanza, noto che c’è ancora molta confusione e scarsa conoscenza. Chi c’è a bordo, l’infermiere, l’autista, il medico? Poi quando spiego che ci sono due soccorritori professionisti, restano abbastanza sorpresi della complessità del lavoro che siamo in grado di fare anche senza il medico, perché l’automedica non arriva sempre.
E il tuo futuro come lo vedi?
Una volta in pensione vorrei andare a insegnare in paesi meno all’avanguardia e la mia esperienza come formatore potrebbe portare concreti vantaggi. Mi riferisco a paesi come l’Africa, o comunque dove c’è bisogno. Ho sempre cercato di far parte di progetti umanitari. Tuttavia, non sono mai riuscito ad entrare in gruppi che vanno in questi luoghi, per un motivo o per un altro. Non aver avuto la possibilità di aiutare anche in questo modo per me è sempre stato un cruccio, ed è un rammarico che tutt’ora mi porto dentro.
Come potresti riassumere quello che hai ricevuto dalla Croce Verde Bellinzona?
Mi ha dato tanto, è stata come una famiglia per me. Mi ha sempre aiutato senza chiedere nulla, ed è stato qualcosa di reciproco. Vivo da solo, la mia famiglia è la Croce Verde, ed è una collega ad aver le chiavi di casa mia in caso di bisogno. Ora faccio meno vita sociale con i colleghi, ma dove c’è la possibilità per un confronto o un parere, ci sono sempre. Sentir dire “Guardate l’Enrico, sono trent’anni che è qui con noi a fare questo lavoro”, mi fa piacere, perché penso di poter essere ancora un esempio per i più giovani. Forse entrerò a far parte del Gruppo dei Samaritani di CVB, il loro apporto è importante per l’aspetto umano che possono portare. Ricordo di un intervento particolarmente complesso in cui noi soccorritori e un medico stavamo cercando di salvare la vita del paziente, e un samaritano, semplicemente, cercava di proteggere il suo viso dal sole.