Carmelo Gentile è un soccorritore d’ambulanza con 36 anni di esperienza. In questa intervista ripercorre i cambiamenti del settore,
dall’evoluzione della formazione alle nuove tecnologie, e condivide momenti toccanti vissuti durante la sua carriera. Un racconto autentico e intenso che mostra il lato umano di chi ogni giorno si dedica a salvare vite.
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Essere un soccorritore non è solo una professione, ma una vocazione. Carmelo, cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada?
Ho iniziato nel 1989. Sono cresciuto nel Locarnese e la sera frequentavo spesso i bar con gli amici. Una sera ho incontrato una persona che già lavorava come soccorritore, siamo diventati amici e abbiamo iniziato a frequentarci. Lui era un soccorritore professionista al SALVA di Locarno e in quel periodo cercavano volontari. Mi ha parlato del mondo del soccorso e dell’urgenza sanitaria; l’idea mi ha subito affascinato. Ho quindi deciso di frequentare il corso per diventare soccorritore volontario, che all’epoca durava otto mesi. Fare volontariato ha fatto crescere in me la voglia di approfondire le conoscenze e diventare un soccorritore professionista. Dopo due anni, ho ottenuto la qualifica e ho iniziato a lavorare all’allora Servizio ambulanza di Ascona. Ricordo bene le condizioni di lavoro di quei tempi, molto diverse da oggi: l’operatività dipendeva molto dalla disponibilità del personale. Dopo un turno giornaliero, era possibile fare anche un turno di picchetto, seguito da un altro operativo. Questo significava essere impegnati per 24 ore di fila, ma grazie alla passione e all’energia della giovinezza si riusciva a gestire tutto.
Col tempo, però, le esigenze personali cambiano e nasce anche il desiderio di costruire una famiglia. Nel 2000 si è aperto un concorso per operatori di Centrale di Soccorso e ho deciso di cogliere l’opportunità. Ho lavorato lì per 14 anni, continuando comunque a fare alcuni turni in ambulanza, come richiesto dal comitato direttivo della Centrale, per mantenere fresche le competenze operative.
Dopo tanti anni in ambulanza, hai deciso di passare alla Centrale 144. Cosa significa gestire un’emergenza solo attraverso una voce al telefono?
Uno degli aspetti più particolari era dover “vedere” l’intervento solo attraverso l’udito, basandomi sul racconto della persona dall’altro capo del telefono. Dal punto di vista emotivo, gestire le emergenze esclusivamente al telefono è quasi più difficile, perché non sei presente sulla scena. Alcuni interventi erano particolarmente impegnativi e spesso avrei voluto un feedback finale dai soccorritori per capire meglio la reale situazione sul posto e confrontarla con quella che mi ero immaginato. Fare l’operatore può generare più frustrazione: sei il primo contatto con chi chiama, vivi il momento, ma poi devi subito passare alla chiamata successiva senza sapere come si è concluso l’intervento precedente.
Il numero di richieste che arrivano alla Centrale è enorme, molto più alto rispetto a quello affrontato da un soccorritore in ambulanza, che in media interviene ogni ora e mezza. Oltre alle emergenze, la Centrale gestisce anche richieste per la guardia medica, farmacie di turno, i medici di picchetto e il Telesoccorso.
Quando, nella tua vita privata, senti il suono della sirena di un’ambulanza, cosa provi? Il tempo ti ha abituato a quel suono?
Queste sensazioni sono cambiate nel tempo. Da giovane, all’inizio, ogni sirena era un’emozione, ti caricava di adrenalina. Col passare degli anni, l’eccitazione lascia spazio a una passione più consapevole.
Da 36 anni sono nel mondo del soccorso. Un tempo, quando sentivo una sirena, mi chiedevo se fosse un’ambulanza, la polizia o i pompieri. Ora, invece, quando la sento, penso: “Caspita, oggi i miei colleghi stanno lavorando”. Con gli anni cambia anche la gestione delle energie: non si può più correre sempre a mille all’ora, ma la dedizione per questo lavoro resta immutata.
Nel corso della tua carriera, hai sicuramente vissuto momenti che ti hanno segnato. C’è un intervento che non hai mai dimenticato?
Uno degli interventi che non ho mai dimenticato risale a trent’anni fa. Era notte fonda, tra le due e le tre del mattino, quando siamo stati allertati per un grave incidente stradale sulla strada cantonale che porta a Brissago-Valtravaglia. All’epoca ero ancora agli inizi della mia carriera di soccorritore professionista ed ero accompagnato da due soccorritori volontari. Le informazioni trasmesse indicavano un incidente piuttosto serio. Arrivati sul posto, la scena era chiara: un’auto, probabilmente capottata più volte, era finita contro la roccia. Mi sono avvicinato per valutare la situazione e, con grande sgomento, ho riconosciuto il conducente “incastrato” nell’abitacolo: era un mio caro amico.
Per un attimo ho provato un senso di panico e impotenza, come se il mondo si fosse fermato. Il paziente era cosciente, parlava, aveva riportato lesioni gravi ma non immediatamente mortali. Tuttavia, era bloccato tra le lamiere e dovevamo attendere l’intervento dei pompieri per liberarlo con il Libervit. Nel frattempo, mi sono sdraiato sul cofano – l’unico punto di accesso – per rimanere vicino a lui, cercando di calmarlo. A un certo punto, uno dei soccorritori volontari ha iniziato a dirmi che l’auto stava prendendo fuoco. Io non volevo crederci, pensavo fosse solo fumo, fino a quando mi hanno letteralmente trascinato via per la cintura. Pochi istanti dopo, la macchina ha preso fuoco e il mio amico è morto tra le fiamme, senza che potessi fare nulla per salvarlo.
(A questo punto, Carmelo si commuove visibilmente).
Ancora oggi, a distanza di 30 anni, porto con me quel momento. È qualcosa che non puoi dimenticare, perché perdere una persona cara in quel modo, senza poter fare nulla, è straziante.
Un altro aspetto che con il tempo ha cambiato il mio modo di gestire le emozioni è intervenire sui bambini. Da quando sono diventato padre, queste situazioni mi mettono a dura prova, indipendentemente dalla gravità del caso. Quando non hai figli, riesci a mantenere un certo distacco emotivo, ma con l’esperienza della paternità tutto cambia. Ricordo in particolare un intervento di due anni fa: abbiamo rianimato un bambino di due anni che, per motivi inizialmente sconosciuti, ha avuto un arresto cardiaco. Purtroppo, nonostante tutti i nostri sforzi, il piccolo è deceduto in ospedale. Più tardi abbiamo scoperto che soffriva di un problema congenito. Abbiamo fatto tutto il possibile, ma l’esito era purtroppo già segnato. Ancora oggi faccio fatica ad accettare che un bambino di due anni possa morire così.
Dall’inizio della tua carriera, cosa è cambiato? Non solo dal punto di vista tecnico, ma anche nei rapporti con i colleghi e nel modo di vivere questo lavoro.
Un tempo non esistevano normative specifiche su come costruire e allestire un’ambulanza, oggi invece ci sono regolamenti dettagliati, persino sull’altezza dell’imbottitura dei sedili. Anche il materiale è cambiato molto: ogni anno vengono introdotti nuovi dispositivi e strumenti sempre più avanzati. La formazione, poi, ha subito un’evoluzione enorme. Prima era organizzata a livello cantonale e prevedeva la frequenza di una settimana al mese. Oggi, invece, il percorso per diventare soccorritore professionista è strutturato come un Bachelor riconosciuto a livello svizzero e dura tre anni, a tempo pieno. Per quanto riguarda il rapporto con i colleghi più giovani, lo trovo stimolante. Grazie a loro, noi soccorritori più esperti restiamo aggiornati e possiamo confrontarci su nuove metodologie. Le frequenti simulazioni permettono un continuo scambio di conoscenze e competenze. Inoltre, i professionisti partecipano attivamente alla formazione degli allievi, il che ci aiuta a mantenere vivo il nostro sapere e ad adattarci alle nuove sfide del soccorso.
Come ha influito sulla tua vita l’essere un soccorritore? Pensi che saresti una persona diversa se avessi fatto un altro lavoro?
Senza dubbio. Il soccorritore è una professione che ti fa crescere molto e ti cambia nel profondo. Spesso si pensa che il soccorritore sia sempre alle prese con situazioni disperate, ma per fortuna non è solo questo. Il grande valore di questo lavoro sta nell’essere a contatto con le persone nei loro momenti di maggiore fragilità. Questo ti porta a riflettere sulla vita e sui suoi veri problemi. Mi colpisce molto, ad esempio, il paziente oncologico. Persone che fino a pochi mesi prima conducevano una vita normale, senza sospettare nulla, e poi si trovano improvvisamente di fronte a una diagnosi che lascia loro poco tempo. Questo ti fa cambiare prospettiva, ti fa capire cosa conta davvero. Spesso sento persone lamentarsi del sistema sanitario svizzero, ma quando vedi altre realtà capisci quanto siamo fortunati. Quest’anno, insieme a mia moglie, che è levatrice, faremo tre settimane di volontariato in un ospedale in Tanzania. Lei aveva già fatto un’esperienza simile in Kenya e, quando torni da questi contesti, non è che sei una persona diversa, ma di certo alcune cose le vedi con occhi nuovi.
Ogni professione ha le sue luci e le sue ombre. Il soccorso preospedaliero ha fatto passi da gigante, eppure ci sono ancora margini di miglioramento. Se tu potessi cambiare qualcosa, cosa sarebbe?
Un cambiamento importante è già avvenuto con il passaggio della formazione alla scuola di cure infermieristiche e il relativo riconoscimento federale. Oggi i soccorritori hanno la possibilità di lavorare in tutta la Svizzera e, grazie a percorsi “passerella”, possono diventare infermieri in tempi più brevi, ampliando le loro opportunità di carriera. Se dovessi pensare a qualcosa da migliorare, direi l’accesso alle informazioni sui pazienti dopo il trasporto in ospedale. È un tema delicato, reso ancora più complesso dalle normative sulla protezione dei dati, ma conoscere il decorso dei pazienti ci permetterebbe di apprendere di più, migliorando la nostra formazione sul campo.
Dopo tanti anni di soccorso, cosa hai imparato sulla natura umana?
Il nostro lavoro ci porta a vedere realtà che molte persone nemmeno immaginano. Entriamo nelle case, spesso all’improvviso, e ci confrontiamo con vite completamente diverse dalle nostre. Questo è ciò che mi affascina di più: non solo il corpo umano, ma la mente, la psicologia delle persone.
Negli ultimi anni, ho visto un aumento significativo dei casi di psichiatria, e questo mi fa riflettere molto. Sempre più persone si trovano in condizioni di sofferenza mentale estrema, e credo che noi soccorritori dovremmo ricevere una formazione più approfondita su questo tema.
Nel tempo libero, chi è Carmelo? Quali sono le tue passioni?
Nel tempo libero ascolto molta musica e suono il pianoforte. Mi piacciono i cantautori di un tempo, come Claudio Baglioni, Francesco De Gregori e Francesco Guccini, mentre la musica di oggi la capisco meno. Amo ascoltare una canzone e provare a indovinarne gli accordi sulla tastiera. Per me la musica è una vera valvola di sfogo. Dopo una giornata particolarmente intensa, suonare mi aiuta a staccare completamente la mente da tutto il resto. Viaggiare è un’altra mia grande passione, ma posso farlo solo poche volte all’anno. La musica, invece, mi accompagna quasi ogni giorno. Trovo incredibile come con solo sette note si possano creare infinite combinazioni capaci di suscitare emozioni profonde.
In effetti, la musica è l’arte più immateriale, non si può toccare né vedere e spesso riesce a farci piangere, mentre è più difficile che accada con un quadro o un’altra forma d’arte.
Esatto, tocca corde profonde, agisce direttamente sulle nostre emozioni. Negli ultimi due anni mi sono riavvicinato seriamente allo studio del pianoforte con un insegnante professionista. Grazie a lui ho capito meglio i meccanismi dell’armonia musicale: ogni tonalità ha i suoi giri armonici e, conoscendoli, posso prevedere quali accordi si inseriranno naturalmente nella scala. È un mondo affascinante, che mi regala sempre nuove scoperte.
Grazie, Carmelo, per aver condiviso con noi la tua esperienza. Che il tuo percorso nel soccorso possa proseguire con la stessa passione che ti ha sempre guidato!